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           loro opere fosse diversa e divergente. Sulle prime, a trionfare sarebbe
           stato proprio Micali, la cui fatica, cui tenne dietro nel 1832 una altret-
           tanto se non ancor più fortunata Storia degli antichi popoli italiani,
           costituì un testo base sul quale raccordare, soprattutto nel 1848, i
           molti modi di pensare l’unità e per immaginare, ancora dopo il 1861,
           uno stato nazionale che tenesse conto delle tante tessere chiamate a
           comporre il mosaico della nazionalità. Cuoco, che dal movimento risor-
           gimentale venne apprezzato assai più per il Saggio storico sulla rivolu-
           zione di Napoli che non per il Platone in Italia, tornò invece a suscitare
           interesse, negli anni dell’Italia liberale, solo quando parve chiaro che
           la costruzione nazionale era rimasta fragile e fosse necessario molto
           tornare a investire sul tema identitario. In altri termini: Micali fu al
           centro dell’interesse finché sembrò possibile che l’unità italiana fosse
           un percorso lineare e irreversibile, destinato a coinvolgere in modo
           eguale tutte le parti d’Italia; Cuoco venne invece recuperato più tardi,
           quando parve chiaro il fallimento di quel tentativo. In breve: l’opera di
           Micali  accompagnò  gli  sviluppi  della  nazionalità,  quella  di  Cuoco
           divenne base d’appoggio per un uso predatorio in chiave nazionalista.
              Nel corso della stagione risorgimentale, d’un lato all’altro d’Italia,
           Micali dunque (non Cuoco) fu l’autore al quale guardare con interesse
           ed ammirazione, per trovare conforto alle origini, reputate immanca-
           bilmente antichissime e nobilissime, dei singoli territori che compone-
           vano il mosaico culturale italiano. La sua opera ben si prestava al
           riguardo, perché nelle sue pagine si elogiava la civiltà italica andata
           distrutta dalla conquista romana, si sosteneva l’antichità delle popo-
           lazioni della penisola, si conveniva sulla loro autoctonia, ma soprat-
           tutto se ne puntualizzava la diversità: come si è già avuto il modo di
           anticipare non solo gli antichi italici erano tutti diversi tra sé, ma altra
           stirpe erano i galli, che avevano distrutto l’antica civiltà etrusca in Lom-
           bardia ed altra gente ancora i greci giunti nell’Italia meridionale, che
           avevano dato a quelle regioni un carattere antropologico particolare e
           tale da differenziarle dal resto della penisola. Questa sua posizione –
           che aveva una chiara matrice nel riferimento all’etruscheria, tornata
           in auge nel corso del Settecento quale elemento determinante per la
           difficile costruzione di una specifica nazionalità nella Toscana grandu-
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           cale – andò non di meno incontro a un largo favore di pubblico negli
           anni della Restaurazione, perché nella sostanza offriva un giustificativo
           alle tante piccole patrie in via di costruzione negli antichi stati italiani.
           Il successo della Storia degli antichi popoli italiani, che sino al 1849




              5  Sul punto, la base d’appoggio rimane M. Cristofani, La scoperta degli etruschi:
           archeologia e antiquaria nel ‘700, Consiglio nazionale delle ricerche, Roma, 1983.



           Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Dicembre 2017    n.41
           ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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